1. A che cosa serve la poesia
A che cosa serve la poesia? Il cannone spara, la forchetta infilza, il secchio contiene, la penna scrive; e ad essa quale azione compete? Scrive Osip Mandel’štam: «La poesia è un vomere che ara e rivolge il tempo portando alla superficie i suoi strati profondi più fertili».(1) «Fertili», qui, significa ricchi di futuro, significa non ancora declinati nell’immobilità del dato. La poesia li porta in superficie, tra le sue maglie più esposte, in quel ruvido che è il testo, con tutte le sue pieghe visibili e invisibili. Essa, in questo senso, non soltanto ara e rivolta il tempo, bensì è il tempo stesso nella sua feconda imprevedibilità. È il tempo presente che, spazializzandosi nel testo, si mostra estaticamente aperto al passato e al futuro. La poesia è perciò il nostro tempo più vero perché, toccandoci con la sua pelle, ci lascia sospesi nel suoeccomi.
A che cosa serve la poesia? Serve dunque a spazializzare il tempo e, così facendo, aiuta a declinare il nostro essere-esposti nell’inesorabilità della presenza, che è già sempre incontro indecidibile con l’altro, con il tu.(2) In questo senso, il problema della relazione fra poesia e presente viene superato dall’opera stessa, nella misura in cui quest’ultima ha la forza di portare in superficie le certezze dell’ordinario, facendole vacillare, sospendendone la perentorietà, rivoltandole come zolle cui soffiare nuovo ossigeno; e tuttavia, la condizione perché questo avvenga – l’avevano ben compreso i romantici – dipende dal fatto che all’opera è preclusa qualsiasi ‘operatività’ ossia la capacità di essere utilizzata per trasformare l’esistente, come invece capita agli strumenti. La poesia, infatti, non è un cannone, una forchetta, un secchio o una penna proprio perché non è a disposizione di alcuna volontà, nemmeno di quella del poeta,(3) il quale si misura edificandola, ma, così facendo, si dis-loca, la patisce e ad essa si rimette come ci si rimette con ottimismo da una malattia. La poesia insomma, lungi dall’essere un mero strumento utilizzabile, aprendosi, dispone (e indispone) affinché il senso del presente non si chiuda, e lo fa senza volerlo, senza saperlo. Sotto questo profilo, essa «rivitalizza» il presente, come già notava Leopardi nello Zibaldone(1 febbraio 1829), ma non lo fonda, non lo trattiene, lo rilascia invece nelle pieghe della sua superficie, in tutta la sua complessità.
Tutto ciò, fra l’altro, impone alla critica contemporanea di cercare una nuova definizione di poesia civile, che tenga conto della morte delle ideologie e del fatto che, come scrive Jean-Luc Nancy ne La comunità inoperosa, l’essere-in-comune della singolarità è coessenziale al suo essere esposto nel finito della presenza, per cui qualsiasi suo atto chiama in causa la comunità, la fa essere, senza residui, in quell’atto, la tiene inevitabilmente esposta nelle maglie dell’agire e dello scrivere. Civile, in questo senso, non è qualcosa che fa da sfondo alle singolarità (e non corrisponde perciò ad un ambito determinato, che esige un preciso modo del poetico), bensì viene a coincidere con la rete comunicativa aperta dalla singolarità nel suo stesso esistere. Se questo è vero, allora anche la poesia lirica è essenzialmente civile, giacché mette in gioco, nei modi del canto, il tremore dell’essercidis-locato e perciò stesso in ascolto del proprio essere-in-luogo, che è uno stare-in-posizione sempre eccedente, mai pacifico o astratto, bensì affettivamente gettato e aperto al futuro. Ciò non va confuso con quanto affermano Lukács e Adorno a proposito del rispecchiamento, nell’arte, delle contraddizioni della società capitalistica; piuttosto occorre pensare alla continua provocazione che è l’esistenza stessa, capace d’esercitare instabilità e spostamento continui all’esserci e alla parola in cui egli sipronuncia, indipendentemente dal suo ruolo sociale e dalla sua quota di potere. Non si tratta dunque – marxianamente – di pensare alla forza critica della poesia lirica, misurando la resistenza che essa esercita rispetto ai valori (o disvalori) del capitalismo, e nemmeno di sparare sulla lirica per uscire finalmente dalla museificazione della polpa individuale, in favore della relazionepoesia e conoscenza,(4) bensì, da parte del critico, di cogliere l’inevitabile attrito di ciascuna singolarità nei confronti del proprio essere-esposta, quel particolare sentire della gettatezza, che invero è sempre racconto comunitario, frutto del dire e del tacere del luogo, che si scandisce, si scuote nella lingua del poeta, mostrandosi nella successione melodico-ritmica e nella costruzione semantica.
A fianco di questa nozione ontologica, occorre sottolinearne un’altra, di carattere sociologico: la poesia è sempre civile nel senso che nasce e muore in un contesto socio-politico, del quale dobbiamo chiedere cognizione al poeta stesso. Scrive Franco Fortini nella Verifica dei poteri: ‹‹La partecipazione sociale e politica dell’opera letteraria avviene nei momenti della sua genesi o della sua funzione, dunque prima o dopo la creazione››.(5) Prima o dopo, anzi: prima e dopo la creazione, a sottolineare sia l’impasto di inventiva e risposta, di mestiere e condizionamento esterno che agiscono insieme nel laboratorio del poeta, e sia le strumentalizzazioni dell’opera da parte dei poteri e dei contropoteri. Di fronte a tutto ciò l’autore deve prendere posizione, diventando anzitutto consapevole del mondo rappresentato nell’opera, dei valori che essa mette in scena e degli interessi reali che muove. Consapevolezza che nasce nell’agone dialogico fra autore e critica, autore e pubblico, autore e industria culturale, entro un margine d’infondatezza e fertile fraintendimento, che trasforma il poeta in viandante, in colui che incessantemente cerca la propria collocazione storico-linguistica e, dunque, civile. Anche perché la poesia (così come l’arte e la letteratura in genere) è una presenza reale che fa comunque la sua strada, indipendentemente dal suo autore; una presenza che, mettendo in gioco pratiche differenti (linguaggi, libri, riviste, letture, interpretazioni, convegni, amicizie e inimicizie, concorsi ecc.) muove corpi ed idee, arricchisce l’immaginario, tesse relazioni, rompe legami, aiuta insomma la storicità ad aprirsi ad un senso mai definitivamente concluso, ma mobile, dialogico, av-veniente.
Non chiediamoci, dunque, che cosa possa fare la poesia per la società attuale,(6) ma piuttosto: che cosa può fare la società attuale per lasciare la poesia liberamente fuori dai recinti e per portare uomini donne e bambini da essa? La risposta ci chiama in causa come soggetti politici, tutti: autori e lettori a rivendicare lo spazio della libertà come luogo in cui la poesia ha senso, proprio perché ci consente di incontrarci senza steccati. Con l’accortezza, naturalmente, di non organizzare riviste come fossero fortezze militarizzate, bensì creando una rete di relazioni autorevoli, in cui lo specifico della poesia crei occasioni per disseminarsi nel territorio e per dialogare con le istituzioni.(7) Il poeta, infatti, come qualsiasi altro essere umano, non può delegare nessuno in sua vece. Attenzione critica nei confronti del reale credo significhi allora assunzione della responsabilità di ex-sistere, di stare allo scoperto nel mondo, rispondendo alla chiamata del dolore e della gioia nell’unico modo che spetta agli uomini: agendo di volta in volta al meglio delle proprie possibilità (e dunque anche scrivendo), sapendosi non individuo monadico, bensì relazione, comunità aperta al differire-differirsi continuo. Di conseguenza, la domanda «a che cosa serve la poesia», va correttamente declinarla in «chi serve la poesia» rispondendo che essa non serve nessuno e che, appunto per ciò, ci addita un modello di relazione senza padroni e senza schiavi. Non mi sembra poco.
2. Quale lingua, quale esperienza?
I rilievi sinora avanzati impediscono di pensare alla realtà come ad una sostanza unica e omogenea, che trova nell’eccellenza di una lingua (di uno stile, di una poetica eccetera) la chiave di volta del disvelamento, per considerarla, invece, plurale, stratificata, conflittuale, e dunque riconoscibile negli infiniti modi della pronuncia singolare, anche in quella più banale. Anzi, in questa, l’apertura storico-linguistica mostra meglio che altrove la propria superficie, la propria forza omologante. Poesia, allora, non dice semplicemente l’apertura, ma mette a dimora il nocciolo della nostra/non-nostra singolarità. Perché ciò accada, occorre che il poeta cerchi la propria declinazione, la voce che meglio coniughi la sua complessità, in un canto coerente eppure attraversato dalle fibre dell’esperienza comune. Ad ogni buon conto, sarebbe sbagliato credere che questa voce – per quanto sopraffina – si conficchi, meglio delle altre, al centro di un bersaglio già dato, e sia dunque, fra tutte, la più vicina alla profondità del presente. Io credo che non ci sia un presente che primeggi ante litteram, un presente preliminare o unico e compatto (a renderlo tale è il pensiero dominante e la macchina del consenso), ma appunto che esso si dia nella sua disseminazione plurale, nel suo brulichio rizomatico seppur parzialmente orientato e ciò grazie alla costellazione dialogico-critica agente sulla spazializzazione testuale. Al poeta spetta il compito di realizzare una poesia «onesta», per dirla con Saba, ossia che sgorghi da un progetto abbracciato con passione, verso il quale rimettersi con il metro dell’intelligenza e dell’impegno. Fare il meglio che si può, con la lingua che ci appartiene e alla quale apparteniamo, senza mai essere soddisfatti, con umiltà, convinti che il testo così forgiato sia degno di rispetto, ma senza idolatrie: è questa, credo, sotto il profilo dell’impegno, la via “manzoniana” da seguire. E quando dico «con la lingua che ci appartiene e alla quale apparteniamo» intendo sottolineare l’infinità delle strade percorribili, perché, se preferisco la poesia della Bishop a quella di Charles Olson, il cinema di Lynch a quello di Rossellini, la pittura di Warhol a quella di Morandi, ma anche se vivo in un dato modo oppure in un altro, la lingua in fieri (quella che de Saussure chiama «Langue») sboccerà diversamente, si farà «parola» nuova e imprevedibile anche per lo stesso poeta. Sarà un linguaggio, quello nato dall’incontro di differenti radici con la creatività dell’autore, che arricchirà l’esperienza, tanto più quanto la poesia (e la scienza e la filosofia e il senso comune) districheranno un significato credibile dalla muta verticalità delle cose.
Dovremo tuttavia chiederci di quale forma d’esperienza stiamo parlando, considerato il fatto che quella dominante, oggi, è di tipo intellettivo, d’impianto logico-formale, che scavalca sia il piacere dei sensi («i profumi, i colori e i suoni» delle corrispondancesbaudelairiane) e sia l’operatività delle mani, per radicarsi nevroticamente nell’uomo ad una dimensione, che ora vive – ancor più di quello marcusiano – un eterno presente sovraccarico di stimoli senza altrove, un presente dai saperi omologanti e costantemente aggiornati, privi di teleologia. Se è questa l’esperienza comune (e castrante) nei Paesi del tardo capitalismo, allora interrogarsi su quale linguaggio sia più salutare alla contemporaneità, significa anzitutto riconoscere che esiste un’abbondanza di codici settoriali, tale da saturare le esperienze legate al sapere calcolante, mentre va sempre più inaridendosi quella lingua degli affetti e del profondo che certa poesia, appunto, coltiva con maniacale ostinazione: dare a queste due esperienze lacunose una lingua e una sintassi – plurali e votate alla metamorfosi, al farsi e disfarsi continuo del presente – mi pare sia l’azione spettante al poeta e che costituisce, dunque (e ciò è fondamentale), la sua eticità.
3. Il dis-appunto della poesia
La poesia dunque risponde alle voci che nel presente risuonano e si disperdono, alle voci che restano, alle voci che nel presente fanno città e campagna, guerra e nascita, canto, silenzio e rumore. Quando nasce una poesia, tutto questo si aduna, si muove in essa, la fa essere in quanto eccedenza. La poesia, infatti, non può essere che eccedenza, presente che tracima, portando con sé la pietra e la fionda, ma anche il futuro incerto che è già qui. Così facendo, essa lascia oscillare tutti i tempi nel suo spazio concreto, li tiene saldi nella singola cosa che nomina, staccandola dal tempo ordinario, e mostrandola nella sua esemplarità. Questo star fuori della cosa è tuttavia già sempre dentro il discorso imbastito dal testo, che tesse ogni volta l’intero e non sopporta nulla al di fuori di sé. Sotto questo profilo, ciascuna poesia è l’esatto contrario dell’appunto, la cui ragion d’essere sta nell’avere accanto il prima e il poi di padre Kronos. Se infatti l’a-punto è tassello d’un insieme in progress, di un fuoco che chiede altri fuochi per raccontare l’incendio, la poesia è invece tutto l’inferno nella capocchia d’un verso, un inferno singolare che vorrebbe testimoniare, a nome di tutti, gl’innumerevoli altri inferni.
In latino, ci sono due parole per dire «testimone»: testis esuperstes. L’appunto incarna spesso la prima accezione, non essendo questi altro che voce terza e giornalistica in una contesa a due; poesia invece – almeno a partire da Hölderlin e Novalis – è ciò che ha attraversato fino in fondo un evento, così a fondo da custodirlo nella carne. Non più descrizione, come nel testis, bensì passione e croce, visione che tiene sul costato le piaghe del superstite. Poesia infatti è superstes, nella misura in cui vorrebbe essere l’unica vera voce, la più autentica proprio perché l’unica supravvissuta. Essa dunque non accetta altri testimoni o li sopporta malvolentieri, suo malgrado; e ciò perché essa mette in opera tutta la verità del vivente, l’universale che respira in quella piega esposta che si chiama singolarità, il cui mondo, portato alla luce nell’opera, è tutto il mondo. L’appunto invece ha bisogno di altri punti, di altre voci particolari su cui poggiare, così che il discorso sul presente si strutturi: ciò che conta, qui, è il tessuto connettivo, la serie indefinita di rimandi dal procedere rizomatico, che dà vita alla complessità policentrica della superficie. Nessun appunto può, dunque, testimoniare «per conto di un Altro».;(8) esso per natura ci chiede infatti la parola, ci spinge a dare voce al nostro esser-presenti. Questo accade ancor più quando l’appunto si assume la responsabilità della civis, diventandone portavoce, e mostrando in tal modo le ferite del superstite, che ha bisogno di stare a fianco di altre voci, per diventare discursus, linea continua e orientata, che metta in forma il progetto collettivo. È quest’ultimo infatti a dare ordine ai tasselli, ad organizzarli nel sistema libro. Il fatto che la medesima questione si presenti nel libro di poesia (e in qualsiasi altra contestualizzazione dell’opera), accade per così dire in “secondo grado”, mentre l’appunto nasce con l’esplicita consapevolezza di arricchirsi entro un mosaico condiviso da altri, tutti testimoni autorevoli e perciò stesso degni d’attenzione.
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